Già in passato F. era spesso tormentato da improvvisi cedimenti della spinta vitale che, senza un chiaro perché, gli impedivano di riconciliarsi con la vita. Ma ora, con la comparsa dei primi degradanti segnali di senescenza, le impennate di disgusto si erano accentuate e si ripetevano con un’ossessiva regolarità fino a renderlo intrattabile. Certo, di suo, F. non era una natura insocievole; non rifiutava mai la compagnia, ma raramente la cercava o gli riusciva di mettere gli altri a proprio agio. Mancava in lui quella vernice mondana, quell’alchimia di toni brillanti e di cinismo, di affabilità e di distacco elegante, di certezze e di adattabilità di modi che invita a godere la vita, come fosse una festa perpetua e spensierata; insomma, una sorta di capacità di resilienza alle pressioni della vita sociale che permette di levigare le eventuali divergenze e però rimanere fedeli alle proprie convinzioni e alla propria costituzione caratteriale. Ebbene, attitudini mondane e salottiere come queste, F. non le aveva mai possedute, neppure all’epoca delle sue frequentazioni dei locali allora alla moda nella cerchia degli intellettuali parigini di sinistra, là dove gli capitò di conoscere quello che ai suoi occhi rappresentava il perfetto uomo di mondo: Stephanos Bonneau o Stephan, come preferiva farsi chiamare questo splendido animale da società.



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